Dopo molti anni di ricerche è stato finalmente chiarito il meccanismo genetico responsabile della colorazione a tartaruga e di quella a tre colori chiamata Calico. La scoperta ha inaspettati risvolti per lo studio di malattie umane rare ed ereditarie
Da tempo è noto che nei gatti il colore arancione del pelo è codificato da un gene del cromosoma sessuale X: un’eccezione rispetto agli altri mammiferi, come l’essere umano, dove il colore dei capelli non è legato al sesso. Questo gene dei gatti esiste in due versioni: una favorisce la produzione del pigmento arancio feomelanina (e si indica con la lettera maiuscola “O”), l’altra (indicata con la “o” minuscola) fa invece produrre il pigmento eumelanina che dà un colore scuro al pelo. I maschi, avendo un solo cromosoma X, tendono ad avere uno o l’altro colore, anche se con una varietà di sfumature e pattern che dipende da altri geni.
Le femmine hanno due cromosomi X e possono ereditare entrambe le versioni, ma solo uno dei due X è attivo, mentre l’altro è tenuto spento da meccanismi epigenetici. La scelta di quale X tenere in funzione avviene casualmente durante lo sviluppo embrionale e cambia da una cellula all’altra. Alcune cellule esprimeranno quindi il cromosoma X con la variante arancione, mentre altre quello con la variante scura e il risultato è un mantello a chiazze casuali di pelo rosso e nero che dà origine al caratteristico mantello tartarugato. Le gatte Calico seguono lo stesso schema ma il loro manto tartarugato è interrotto da larghe zone di pelo bianco dovute a un'altra variante genetica che non è legata al sesso.
Anche se questi fenomeni erano noti da decenni il gene “O” non era mai stato identificato, e tanto meno il suo meccanismo di azione. Gruppi di ricerca statunitensi e giapponesi hanno recentemente pubblicato (in preprint) due studi indipendenti che arrivano alla stessa conclusione: il gene che determina il colore arancione nei gatti si chiama Arhgap36 e funziona in modo inaspettato.
Arhgap36 non codifica infatti per alcun pigmento ma è in grado di modificare l’attività di altri geni che li producono, come per esempio MC1R, lo stesso che determina il colore dei capelli negli esseri umani (una variante di MC1R è nota per essere tipica delle persone con i capelli rossi).
Questo “gioco di sponda” non si era mai visto finora nei geni che determinano il colore del pelo dei mammiferi e, inaspettatamente apre nuove strade anche per la ricerca su gravi malattie umane.
Poco prima di questi studi, infatti, un gruppo di ricerca internazionale che include genetisti italiani aveva associato Arhgap36 a una rarissima e grave malattia ossea riscontrata in una bambina deceduta purtroppo a causa della patologia nel 2018.
“Non mi aspettavo il coinvolgimento dello stesso gene anche nel colore dei gatti, “commenta Alfredo Brusco, docente di genetica medica al dipartimento di neuroscienze “Rita Levi Montalcini” dell’Università di Torino e coautore dello studio sul DNA della bambina, durato dieci anni.
“La malattia si chiama eterotopia ossea progressiva e la mutazione del gene Arhgap36 trovata nella bambina è finora un caso unico, ma le scoperte sui gatti potrebbero aiutare a chiarire quello che succede negli esseri umani. Per esempio, l’effetto del gene sembra essere limitato a un preciso tipo di cellule: i melanociti nei gatti e le cellule ossee nell’uomo e in entrambi i casi dipende da un’espressione eccessiva del gene,” conclude Brusco. “La nostra idea era che studiando Arhgap36 si potesse chiarire il metabolismo dell’osso ma, alla luce dei risultati sui gatti, le ipotesi sul tavolo diventano molte di più.”
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